Gettata nella stiva dagli scafisti:
«Così mi hanno rotto le ossa»

Martedì 2 Settembre 2014 di Petronilla Carillo
Gettata nella stiva dagli scafisti: «Così mi hanno rotto le ossa»
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Storie di violenze. Storie di donne. Ma soprattutto storie di soprusi. Storie spesso nascoste dietro quel velo di gioia che traspare dai volti di chi, dopo anche 48 ore di navigazione, tocca finalmente la terraferma gettandosi alle spalle il dolore, la sofferenza e gli abusi subiti anche solo per un attimo.



Storie che tavolta trasudano da uno sguardo ma che non sfuggono a chi, invece, non può far altro che essere spettatore impotente di una tragedia umana. A raccontare una delle tante storie di donne e violenze è proprio una donna, il prefetto di Salerno Gerarda Maria Pantalone.



Sempre presente, ad ogni sbarco, accoglie personalmente molti dei profughi e per tutta la mattinata coordina le operazioni in raccordo con il ministero. Si ferma a regalare a quelli che lei stessa definisce i «nostri ospiti» un sorriso, a dare una carezza ai bambini, una stretta di mano rassicurante alle loro mamme. Non indossa mai mascherina o guanti. «I controlli sanitari sono ben fatti», non si stanca di ripetere sempre a chi le chiede se non teme infezioni.



«Siamo al quinto sbarco ma a certe cose non ci si abitua mai», commenta. E poi racconta. «Ho visitato queste navi, ho visto come lavora il personale della Marina militare e mi sono anche soffermata a parlare con un medico, anche lei donna, che ha assistito molti di questi migranti durante il viaggio che li avrebbe portati a Salerno. È stata lei a mostrarmi qualcosa che mi ha lasciata senza parole». Si tratta di una radiografia. Una radiografia che la giovane dottoressa ha voluto mettere agli atti perché ciò che ha visto in quella lastra l’ha lasciata senza parole. Anche a lei che è medico.



«Erano due radiografie fatte alle braccia di una profuga. Le ossa presentavano una serie di fratture all’omero, all’ulna e al radio, quasi simmetriche. Poi mi hanno spiegato che questa donna è stata afferrata con violenza da un uomo grosso, probabilmente.



Questa violenza nel prenderla, quasi fosse un oggetto e spostarla da un’altra parte dell’imbarcazione, è stata tale da spezzarle le ossa delle braccia. Doveva essere stipata, essere infilata tra tanti corpi e così le hanno fatto del male». Poi un dolore nel dolore, nell’essere sistemata tra altre decine e decine di persone in uno spazio molto ristretto, le sue ossa rotte si sono spostate. In alcuni tratti ulna e radio si sono mosse causandole altro dolore.



Ma per lei non c’erano alternative che soffrire, in silenzio, per non infastidire gli scafisti e i loro accompagnatori senza scrupolo ne coscienza. Perché in caso di lamentele ci sono solo botte e un posto in stiva, schiacciati tra i tanti altri passeggeri meno fortunati.



Ma non è la sola testimonianza di violenza fatta da chi ha pagato finanche 1.400 dollari per fuggire dal proprio Paese. I più decisi a raccontare la verità sono siriani e palestinesi: persone comuni, con un lavoro nella loro terra che hanno deciso di rinunciare a tutto pur di scappare dalla guerra e da altre violenze.



Sono loro, come raccontano anche ai mediatori culturali, i primi a non accettare i soprusi e chiedere alle forze di polizia di fare giustizia. Forse perché quelli in grado anche di pagare un biglietto di «prima classe» sui barconi della vergogna. Appena messo piede sulla terraferma chiedono il riconoscimento dello status di rifugiato politico e poi raccontano storie di uomini utilizzati come «sacchi», sistemati a seconda della propria conformazione fisica nelle stive per fare da contrappeso.



Sono quelli che loro definiscono «africani», ovvero sub sahariani. Persone che partono dai loro villaggi con un unico obiettivo: riuscire a mandare a casa i soldi necessari per la sopravvivenza delle proprie famiglie. Partono con pochi soldi e il loro viaggio è ancora più lungo. Devono pagare dazio a quanti «impongono» il pizzo sull’attraversamento delle frontiere.



Così arrivano a Tunisi e Zuara, da dove partono le imbarcazioni clandestine, con poco denaro. Per loro solo un biglietto di «terza classe», in stiva dove vengono piazzati a seconda delle esigenze. Sono loro, in caso di naufragio, i primi a morire. Perché dalle stive non si sfugge, dalle stive si può solo pregare di uscirne vivi.
Ultimo aggiornamento: 3 Settembre, 13:13

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