Inasprire le pene per la corruzione?
Prima garantire che siano scontate

Sabato 13 Dicembre 2014
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Caro direttore,

la questione morale è ormai una emergenza nazionale e Renzi presenta il suo pacchetto anticorruzione, ma anziché scegliere, così sembra, la strada del decreto legge, che entra in vigore immediatamente dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, se la prende comoda decidendo di procedere col disegno di legge. Il motivo viene spiegato dal renziano Roberto Giachetti durante la trasmissione televisiva "Anno uno": "È sempre meglio riflettere cinque minuti di più, resistendo alla spinta emotiva determinata dagli scandali". Molto poco convincente, se pensiamo all'immagine dell'uomo del fare che il premier ha voluto dare di sé. Oppure, più semplicemente, Renzi e Berlusconi sono due facce della stessa medaglia?




Emilio Baldrocco

Venezia





Caro lettore,

non credo che Renzi e Berlusconi siano le due facce della stessa medaglia. Equiparare il presidente del Consiglio all'ex Cavaliere mi sembra una semplificazione eccessiva, forse efficace sul piano propagandistico, ma poco utile a comprendere il fenomeno Renzi e le conseguenze che la sua politica ha e avrà dentro la sinistra italiana.



Per ciò che riguarda il pacchetto anti-corruzione più che allo strumento legistativo da addottare, penso sia importante riflettere sui contenuti. Ho qualche dubbio che aumentare le pene previste sia l'esigenza prioritaria. Innanzitutto prima di preoccuparsi di alzare le pene, occorrerebbe garantire che vengano effettivamente scontate. Inoltre credo ci siano altri strumenti da mettere in campo. Primo fra tutti la confisca, anche totale, dei beni di corrotti e corruttori e, come ha proposto su questo giornale nei giorni scorsi il professor Cesare Mirabelli, la loro immediata liquidazione, destinando i proventi al fondo per la riduzione del debito pubblico. In secondo luogo occorre rendere più stringenti le pene anche per quanto riguarda gli effetti sulla condizione professionale delle persone coinvolte.



Un solo esempio: oggi, secondo la legge, il patteggiamento non è una condizione sufficiente per licenziare un dipendente pubblico. In virtù di ciò, per esempio, uno degli indagati-chiave dell'inchiesta Mose, dopo aver patteggiato e lasciato il carcere, è tornato ad occupare il suo posto di lavoro nell'amministrazione pubblica. È normale?

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