Gli amministratori corrotti
fuori dalla politica a vita

Sabato 18 Ottobre 2014
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Caro direttore,

seguo sul Gazzettino le vicende giudiziarie del Mose e mi sorge una riflessione che desidero condividere in questa sede, senza riferimento ad alcuna delle persone implicate nella vicenda.



Un politico che viene eletto, sia esso semplice assessore di un piccolo Comune o ministro della Repubblica, nel momento in cui viene beccato a fare l'interesse privato e non il bene della collettività, cosa quest'ultima per cui è stato eletto e per cui viene profumatamente pagato, ritengo si macchi non di un semplice reato amministrativo o penale, ma del reato di alto tradimento nei confronti della Patria che lo ha eletto e lo paga.



Per tale reato, la pena prevista (se i miei ricordi non mi ingannano) è il carcere a vita in tempo di pace e la pena di morte in tempo di guerra. In ogni caso non c'è pena che possa ripagare gli elettori della fiducia tradita.




Alberto Iaderosa

Mestre





Caro lettore,

non si faccia illusioni: al carcere a vita ormai non vengono più condannati neppure i pluriomicidi. No, credo che al di là della pena detentiva che dipende da molti fattori, ciò che sarebbe giusto pretendere è una sorta di esplicita "conventio ad excludendum" nei confronti dei pubblici amministratori corrotti e corruttori.



Per dirla in modo più chiaro possibile: il deputato, il sindaco, l'assessore o il presidente di regione che, nell'esercizio delle sue funzioni, viene riconosciuto colpevole di reati gravi contro il patrimonio pubblico, non dovrebbe più avere il diritto di assumere incarichi pubblici o ruoli politici a nessun livello, vita natural durante.



Se, scontata la pena, vorrà mettere il proprio tempo al servizio degli altri, potrà eventualmente dedicarsi al volontariato. Ma dovrà stare lontano dai Palazzi della politica. Già questo sarebbe un bel risultato.

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