Ecco la rivoluzione industriale
del nuovo "modello Nordest"

Giovedì 29 Gennaio 2015 di Giancarlo Pagan
Ecco la rivoluzione industriale del nuovo "modello Nordest"
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Uno zero tondo. Dal 2000 al 2014 il prodotto interno lordo del Nordest non è cresciuto di un centesimo. Per giunta dal 2008 il Nordest ha perso il treno della Baviera e del Baden Wurttemberg, le aree più dinamiche della Ue con cui aveva rivaleggiato durante tutti gli anni ’90. L’economia nordestina ha smesso di correre con il passo delle lepri d’Europa, per scivolare progressivamente. Il Triveneto produceva beni e servizi per 191 miliardi di euro all’inizio del secondo millennio e tanti ne ha generati l’anno scorso.



Anzi, essendo pignoli, al netto dell’inflazione, in quattordici anni il Pil nordestino è diminuito. Il rapporto 2015 della Fondazione Nordest, presentato ieri a Cornuda, nella Tipoteca Auditorium Antiga, dal direttore Stefano Micelli, constata che dal 2008, ultimo anno buono prima della grande crisi, il Triveneto ha perso l’8% di Pil mentre l’economia mondiale, nello stesso periodo, è cresciuta del 50%.



Tuttavia dalla relazione di Micelli, che cade nel 15. anniversario della Fondazione Nordest, il brain trust dell’industria e della finanza triveneta, presieduta dal padovano Francesco Peghin, si evince che ci sono le condizioni per voltare pagina. Quello appena concluso dovrebbe essere l’ultimo anno critico. Lo scenario macroeconomico è cambiato e la parte più dinamica, più esposta alla concorrenza internazionale, si è "resettata" con nuovi fattori di competitività.

A partire dal 2008 gli elementi negativi si sono autoalimentati. La produzione è crollata, le aziende sono ricorse alla cassa integrazione, poi hanno licenziato, il Nordest ha perso così 184 mila posti di lavoro. Tanto che il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato passando dal 3,4 al 7,7% (mentre quello del cugini bavaresi è sceso dal 4,3% al 3,1%). Come conseguenza i consumi delle famiglie sono crollati del 6% e gli investimenti addirittura del 22,5%. Anche per colpa di fiscal compact e patto di stabilità. Contro ogni logica economica, e all’opposto di quanto hanno fatto Usa e Gran Bretagna, l’intervento pubblico in Europa è stato pro ciclico. Invece di tagliare gli sprechi, Stato ed enti locali hanno azzerato gli investimenti, peggiorando il quadro economico. Tuttavia il gelo del mercato interno è stato temperato dalla capacità dell’impresa nordestina di generare business all’estero. Questo - spiega Micelli - è il primo segnale di "reset" del modello. La propensione all’export è passata dal 30% al 37% del Pil. Pur non potendo contare su grandi economie di scala e in presenza di un euro che ha raggiunto anche quota 1,4 sul dollaro, le imprese sono riuscite ad allargare il proprio mercato negli Stati Uniti e hanno trovato nuovi sbocchi nei Paesi del Golfo e nelle economie emergenti (Cina, India, Brasile e Russia). E’ il segno - spiega Micelli - che il Nordest è alla vigilia della terza rivoluzione industriale. Ha le caratteristiche per diventare un protagonista dell’economia 2.0, che si gioca su tre fattori: capitale umano, cultura e attrattività. «Ciò che rende unico un territorio è la sua storia, un bene non riproducibile» - sintetizza l’economista Chiara Mio, presiedente di Friuladria, tra i principali sponsor di Fondazione Nordest. Ed è su questo che i distretti triveneti hanno puntato per competere nel mercato mondiale. Non a caso l’export agroalimentare, nonostante la crisi, è balzato del 46%. «Non abbiamo copiato la Silicon Valley. Non era questo il nostro modello». Il nuovo volto del manufatturiero del Nordest nasce da un diverso rapporto tra produzione e mercato. «La parola chiave è digital manifacturing - dice Micelli - anziché produrre e poi cercare di vendere, si produce su misura per soddisfare le richieste, quanto più personalizzate, di chi acquista». E in questo le imprese del Nordest potrebbero diventare imbattibili.
Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio, 08:13

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