Bugitti, dalle Brigate Rosse alla banda di Mafia capitale

Domenica 21 Dicembre 2014
(Segue dalla prima pagina)

Sghignazzava nella gabbia della corte d'Assise - era l'autunno del 1980 - la ragioniera Emanuela Claudia Bugitti, un viso da casalinga, un aspetto che passava assolutamente inosservato. Al venerdì usciva da una fabbrica di Remanzacco, in provincia di Udine, e prendeva il pullman per Jesolo dove trascorreva il week end a giocare alla terrorista. Un gioco tragico, perchè nel covo da lei affittato nel condominio Albatros erano passati i compagni clandestini che uccisero l'ingegnere Sergio Gori direttore del Petrolchimico di Marghera e il dottor Alfredo Albanese, vicecapo della Digos veneziana. Quando la presero, nel maggio 1980, la Bugitti aveva sul tavolo tre pistole con il colpo in canna. Poi se la cavò dall'accusa di aver partecipato ai due omicidi, ma beccò una quindicina d'anni per banda armata e reati minori.
Più di trent'anni dopo Emanuela Claudia Bugitti, nata a Udine il 22 novembre 1953, è rispuntata nel blitz che a Roma ha decapitato un'organizzazione tentacolare, con agganci mafiosi, che controllava affari e appalti, pagando lautamente politici e funzionari pubblici. Lei era una delle collaboratrici di Salvatore Buzzi, il deus ex machina dell'intrallazzo. Talmente fedele da ricevrne le confidenze sugli incontri con il sindaco Gianni Alemanno. Due giorni fa il Tribunale del riesame le ha concesso i domiciliari.
Ma nell'ordinanza di custodia in carcere è tratteggiata come un personaggio solo in apparenza di secondo piano. «La sua posizione, sul versante della corruzione attiva, è tra quelle più prossime all'operatività del sodalizio, il che è indice di elevata pericolosità sociale». Così scrive il gip. Che aggiunge «un giudizio sinergicamente potenziato dal suo certificato penale, non tanto perché evidenzia i gravi reati di cui si è macchiata nel suo passato (armi, terrorismo, reati contro il patrimionio), quanto piuttosto perché anche nei suoi confronti si registra un desolante fallimento di tutti gli strumenti previsti dall'ordinamento penitenziario intesi alla rieducazione e al reinserimento».
Un'osservazione comune ad altri imputati, come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Il carcere non li ha rieducati, anzi li ha fatti conoscere. «In particolare - scrive il gip - la Bugitti ha fruito di anni 1, mesi 6 e gg. 15 di liberazione anticipata e della semilibertà, spazi che ha utilizzato per reinserirsi a pieno titolo in circuiti criminali di elevatissima pericolosità». Il passato ritorna per l'ex terrorista. «L'indagata è gravata da diversi precedenti penali, sia pur risalenti nel tempo, di particolare allarme sociale, quali quelli in tema di armi, commessi nel 1980, per i quali le è stata concessa l'amnistia, nonché di partecipazione a banda armata...».
Era stata rinviata a giudizio (anche per gli omicidi Gori e Albanesi) il 2 febbraio 1982. Non aveva avuto un ruolo di capo dell'organizzazione, era un'"irregolare", inserita a pieno titolo nella banda eversiva. Il suo compito era di fornire covi e renderli sicuri. Incensurata, non destava sospetti che un contratto d'affitto fosse intestato a lei. Un ruolo logistico, ma non solo. Perchè il giorno in cui le misero le manette stava battendo a macchina una delle famigerate "schede", preludio di un possibile attentato, riguardante un politico veneto. In primo grado condanna complessiva a 19 anni e mezzo, ridotta in appello (24 giugno 1983) a 15 anni. Era rimasta un'irriducibile, senza mai scendere a patti con lo Stato.
Ed è proprio il carcere, seppure con i debiti distinguo, a unire in un unico filo le esperienze terroristiche di allora con i guai giudiziari di oggi. Perchè la Bugitti aveva conosciuto Buzzi in galera, dove l'uomo era detenuto per una condanna a 20 anni di carcere per omicidio. Brillante studente universitario dietro le sbarre, Buzzi si era laureato con la lode nel 1983 e poi aveva fondato una cooperativa (la "29 giugno"), iscrivendola alla Lega delle Cooperative. E di quella coop non molto tempo fa la Bugitti è diventata presidente, essendo allo stesso tempo direttore della "29 Giugno onlus", nonchè presidente della Commissione pari opportunità della Legacoop Lazio. Ma quando andava alle riunioni a parlare di tangenti, lasciava a casa il telefonino. Per non essere intercettata. Una vera esperta.
Giuseppe Pietrobelli

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