Renzi incassa il sì del Pd ma nel partito è scontro

Martedì 30 Settembre 2014
Quella che doveva essere la direzione Pd della "resa dei conti" è finita con il fallimento del tentativo di mediazione tra maggioranza e minoranze, conseguente spaccatura nel voto sulla relazione del segretario-premier, conclusasi con 130 sì, 20 no e 11 astensioni. Un risultato che registra anche la divisione delle minoranze al momento della prova finale.
In effetti la vecchia guardia l'attacco a Matteo Renzi l'ha sferrato, non soltanto sul Jobs Act e sull'abolizione dell'articolo 18 ma anche sulla gestione del partito, portata avanti, secondo l'ex segretario Pierluigi Bersani, a colpi di "metodo Boffo" (un riferimento all'attacco sferrato nel 2009 da "Il Giornale" a Dino Boffo, allora direttore di "Avvenire", metodo diventato sinonimo di gettar fango su chi dissente).
Da parte sua, il premier Matteo Renzi, evidentemente consigliato in questa direzione dal capo dello Stato che ha incontrato al Quirinale, ha smorzato i toni e concesso alcune modifiche sull'art.18 impegnandosi a mantenere la possibilità del reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare e discriminatorio, eliminandola per quelli per motivi economici (giustificato motivo oggettivo). Ha tentato così una doppia mediazione: aprendo alla concertazione con i sindacati e dando mandato al suo vice Lorenzo Guerini di trattare con le minoranze per un documento finale comune.
Con Cgil, Cisl, Uil è da vedere adesso come proseguirà il discorso, mentre nel Pd si è consumata la prevedibile rottura, che permette ad entrambe le parti di marcare le proprie posizioni. L'opposizione interna però, pur respingendo in blocco l'appello di Renzi a «votare uniti in Parlamento», vota in ordine sparso. Alla fine la direzione torna a fare la voce grossa: «Da oggi tutti dovranno adeguarsi, se pensano di spaventarmi si sbagliano».
Il premier avrebbe tirato dritto, convinto che la sua ricetta sul lavoro è «l'unica della sinistra moderna» che dà e non toglie diritti. E che l'articolo 18 è già nei numeri un tabù ideologico da superare per un nuovo sistema di welfare che dia tutele crescenti ma diritti universali. Ma da più parti lo hanno invitato a cercare un'intesa anche per non sfaldare, per la prima volta nell'era Renzi, il partito democratico. Con un incontro in mattinata a Palazzo Chigi, il premier dà quindi mandato ai due vicesegretari Guerini e Deborah Serracchiani di cercare di agganciare la minoranza più riottosa, guidata da Gianni Cuperlo, Francesco Boccia e Stefano Fassina, facendo leva anche sulla sponda dei giovani turchi e dell'area dialogante che fa capo al capogruppo Roberto Speranza.
Ma l'attacco diretto, e non certo di fioretto, partito da Massimo D'Alema e Pierluigi Bersani ha fatto capire come sarebbe andata a finire la giornata. L'ex premier ha smontato punto per punto la relazione del segretario, senza andare troppo per il sottile. «L'art. 18 non è un tabù da 44 anni, è cambiato due anni fa», è stata la stoccata di D'Alema, che ha fatto più volte riferimento «al fascino di un'oratoria», quella renziana, con «scarsa attinenza con la realtà. Consiglierei maggior prudenza, meno slogan e spot, più riflessione». La vecchia guardia, dopo mesi di prudenza e bocconi amari inghiottiti, ieri è così uscita allo scoperto gridando il proprio "no" sull'intera gestione del Pd. «Noi sull'orlo del baratro non ci andiamo per l'art. 18 - ha tuonato Bersani - ma per il metodo Boffo, perché se uno dice la sua, deve poterlo fare senza perdere la dignità».
Il premier non si è fatto impressionare e non ha cambiato rotta: «Il Pd - ha detti - si candida a rappresentare anche imprenditori e non solo operai. Se gli imprenditori del Nordest che prima votavano centrodestra hanno votato per noi è perché abbiamo regalato a loro e ai loro figli la parola opportunità», ricordando il 40% di consensi raccolto alle Europee che non ha alcuna intenzione di spingere a fare «zapping» alle prossime elezioni, tardi o presto che siano.

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