«Io, patriota e ribelle per amore della libertà»

Giovedì 31 Luglio 2014
Un lenzuolo chiuso a fagotto, all'interno una caterva di emozioni, da portare in granaio insieme ai giocattoli di bambino, ai ricordi e ai segni di quando si era fanciulli. Cesare Marzona li racconta così i 90 anni che compirà domani. Quasi un secolo dedicato a costruire questo Paese, prima da «patriota», scegliendo la lotta partigiana da «ribelle» e poi per 12 anni da sindaco del suo paese, Valvasone. Una vita illuminata dal faro di una mentalità cattolica e liberale ereditata dal nonno e da una professione, quella del notaio, di tradizione familiare.
Ne è valsa la pena lottare per questo Paese?
«Egoisticamente, sì. Tutto ciò che ho fatto l'ho fatto con piacere e per amore della libertà. Mi considero patriota più che partigiano. Forse non lascerò tracce del mio passaggio, ma non possiamo mai sapere la relazione che ci può essere fra il battito d'ali di una colomba qui e lo tsunami dall'altra parte del mondo. Esistono relazioni tra i fatti che noi non conosciamo».
Quanto ha influito la sua tradizione familiare?
«Mio nonno Carlo nel 1866 combatté nella III guerra d'Indipendenza con un battaglione di friulani. Furono sconfitti ma ricevettero un encomio solenne da Garibaldi. La famiglia conservò poi la sua divisa da garibaldino. I tedeschi la trovarono nel '17, durante una perquisizione della casa, la appesero a un ramo della magnolia del giardino e la sottoposero a esecuzione regolare, fucilandola e facendola a brandelli».
Come divenne partigiano?
«La brigata Osoppo si formò a casa nostra, a Treppo Piccolo. Era il centro operativo quello, guidato da due menti buone, la mia e di mio fratello, e da don Ascanio De Luca, cappellano militare reduce dalla Russia. In quella casa ospitammo anche 4 indiani fuggiti dai campi di concentramento. Nel marzo del '44 partimmo per la malga Pala-major in Val D'Arzino. Lì le fila della Osoppo s'ingrandirono a dismisura».
Le sue «azioni» da partigiano?
«Stavo nei dintorni della malga e poi a Pielungo. Sabotai quasi ogni notte la linea ferroviaria Gemona-Sacile, attaccai una caserma di cosacchi e utilizzai le matite esplosive a tempo che ci venivano fornite dagli alleati. Le mettevamo nei camion dei nemici. Stavamo ai margini della guerra, ma quelle matite erano la denuncia della nostra presenza. Una pressione sulle menti dei nemici».
E suo fratello?
«Giancarlo (Piero il nome di battaglia) e Delicato Fortunato (il Bologna) giravano dalla Carnia al mare con il loro leggendario furgoncino sgangherato. Compivano azioni temerarie, come quando requisirono l'auto del prefetto di Ravenna per rubare tutti i suoi lasciapassare. Non conoscevano il rischio. Io andai con loro solo due volte, ma ero troppo prudente per stargli dietro. Nel '44 li fucilarono a un posto di blocco. Non ebbero neanche il tempo di scendere da quel furgoncino».
Lei fu mai fermato a un posto di blocco?
«Sì, nel marzo del '45, ma mentre venivo scortato in caserma in bicicletta riuscii a scappare. Le strade di Vendoglio (Treppo Grande) le conoscevo come le mie tasche e mi intrufolai a tutta velocità in una stradina di campagna, invece di seguire la discesa della strada principale».
Non la trovarono più?
«Conobbi momenti di terrore, i più brutti della mia vita. Abbandonai la bicicletta e scappai fra i filari delle viti. Entrai in un fienile e mi nascosi nella paglia, dopo aver ritirato la scala. Sentivo i tonfi degli scarponi dei tedeschi sul pavimento. Avevo vent'anni, ma la mia cultura, la mia forza non servivano a niente. Ero disarmato. Morto».
Poi fu condannato a morte.
«Dovetti costituirmi, altrimenti avrebbero dato fuoco alla mia casa e a chi ci stava dentro. I tedeschi mi portarono nelle carceri di via Spalato a Udine e mi condannarono a morte insieme ad altri 29. Durante lo pseudo processo mi difesi dicendo che mi sentivo un soldato che combatteva per l'Italia e che volevo essere trattato come un prigioniero di guerra. Mi sentivo un ribelle. Ma per loro eravamo solo banditi da fucilare».
Come si salvò?
«Per intercessione dell'arcivescovo Giuseppe Nogara la condanna divenne sospensione di esecuzione per 20 giorni. Io mi ammalai gravemente di appendicite, rischiavo di morire come un ammalato qualunque. 24 di quei 30 furono poi fucilati. Una crudeltà: era orami aprile, cosa avrebbero potuto fare quei prigionieri disarmati?».
Il giorno della Liberazione dove si trovava?
«Su un letto da bambino, nel reparto pediatrico dell'ospedale di Udine. Il giorno prima i tedeschi erano venuti a cercarmi e gli infermieri, consci della mia identità, mi avevano fasciato come una mummia e mi avevano piazzato su un lettino. Mostrarono ai tedeschi il mio letto vuoto dicendo che ero fuggito».
Lei è stato eletto più volte sindaco. Da che parte stava?
«Ero nella lista della Dc come indipendente, nonostante fossi di estrazione cattolica. È nelle file dell'Azione Cattolica che ho imparato a onorare gli ideali della vita. Una volta sindaco, mi sceglievo sempre come assessore fidato un uomo della minoranza e gli affidavo deleghe importanti. Del resto ero molto impegnato con il lavoro di notaio. Oggi lotte e coltello. Allora i tempi erano diversi».
Perché?
«Ma vaga ahimè nella notte, vive come nell'Ade/ senza il divino la nostra progenie» ha scritto Hölderlin. E non parla di religiosità, ma di spiritualità. Quella che oggi manca».
Come se li sente addosso, questi novant'anni?
«Nel tempo assoluto solo un attimo, ma vissuti sono intensi, riempiti come sono da una caterva di emozioni, da chiudere in un grande lenzuolo e da portare in granaio, insieme ai giocattoli, alle piccole biciclette, ai ricordi e ai segni di quando eravamo fanciulli. Là questi ricordi non invecchieranno. Novant'anni sono un niente, eppure sono tantissimi».
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