Decapitato dalla staffa del furgone, Maria Teresa: «Sono morta quel giorno con mio marito Massimo. E che giustizia è questa?»

Giovedì 16 Maggio 2024 di Nicola Munaro
Massimo Bettini - secondo a sin. - in una foto con la famiglia

PADOVA - La terra sotto i piedi le è mancata giovedì scorso nel sentire il giudice del tribunale monocratico di Padova pronunciare per tre volte l’articolo 530 del codice di procedura penale, quello cioè con cui l’imputato viene assolto. In questo caso dall’accusa di concorso in omicidio stradale per l’incidente che la mattina del 17 marzo 2017 uccise il 58enne capo reparto del Centro meccanizzato postale di Camin Massimo Bettini, decapitato nella sua auto che, all’altezza del ponte San Gregorio, impattò contro il braccio stabilizzatore fuori controllo di un furgoncino di AcegasApsAmga che da Camin stava andando in Prato della Valle.

Lei è Maria Teresa Zecchino ed è la moglie di Bettini. Gli imputati erano quelli per cui - per la morte di suo marito - la procura aveva chiesto condanne che sono state rimandante al mittente: articolo 530 del codice di procedura penale. Assoluzione, con la formula di non aver commesso il fatto. «Questa sentenza ha dell'assurdo, dell'osceno e non è giusto che ci sia chi si permette "in nome della legge" di calpestare la dignità delle persone, di chi non c'è più e di chi si aspetta un minimo di giustizia», si sfoga ora lei.

Signora Zecchino...
«Non eravamo parte civile nel processo avendo avuto un risarcimento dall’assicurazione, ma quello che volevamo era che venisse fatta giustizia in nome di Massimo».
Invece tre assoluzioni arrivate dopo sette anni divisi tra inchiesta e processi, prima dal giudice dell’udienza preliminare, poi in tribunale. Che ha provato nel sentire l’esito?
«Giovedì scorso ero con i miei figli Giulia, di 35 anni, e Alberto di 31 anni. Non ci siamo mai persi una sola udienza, abbiamo ascoltato tutto il dibattimento. Quando abbiamo sentito la parola “assoluzione” il nostro cervello è andato in acqua».
Per la giustizia non ci sono colpevoli...
«E non ci sono nemmeno responsabili per la morte di mio marito. Cos’è? Ha fatto tutto da solo? Come se avesse avuto un infarto alla guida della sua macchina andando a lavorare. Le difese hanno spiegato al tribunale che non c’era la certezza che qualcuno avesse toccato il camion, che non è stato possibile risalire con certezza a chi dovesse agganciare la sbarra. Alla fine di tutto non è colpa di nessuno, è un'ingiustizia». 
È passata una settimana da quella sentenza, che sensazioni ha?
«Durante tutto il processo c’era davanti a noi la scritta che “la legge è uguale per tutti”. Ora non lo penso più. O almeno, per mio marito non lo è stato. Passargli sopra in questo modo è stato ammazzarlo una seconda volta, come anche noi siamo stati uccisi una seconda volta giovedì, sette anni dopo. Sono sincera, a un certo punto del processo avevamo capito che c'era un certo indirizzo ma non ci aspettavamo finisse così».
Lei ha mai visto le carte dell’inchiesta?
«Si, lo conosco molto bene come incartamento: è un insieme di faldoni di più di mille pagine con consulenze dettagliate e una certezza, quella che la sbarra di ferro si è sganciata ed è uscita dal camion uccidendo una persona, chiunque essa fosse: anche la procura è arrivata a chiedere condanne pesanti, com’è stato possibile che sia finito così? E lo direi anche se non si trattasse di Massimo». 
Sono passati sette anni e due mesi da quella mattina, come li ha vissuti?
«Io sono morta quel giorno, con Massimo».
Chi era suo marito?
«Era il perno della nostra famiglia. Ci conoscevamo fin da quando eravamo ragazzi e siamo sempre stati insieme. Anche i nostri figli, seppur giovani e seppur seguendo ciascuno una strada propria, sono ancora segnati da questo che è successo perché non è stata una malattia che comunque, sotto-sotto e mentalmente, in un certo senso ti prepara anche a quello che potrebbe succedere. Invece è stato un colpo enorme, tanto difficile da accettare».
Ripensa mai a quella mattina?
«Sì, e seguendo il processo sono ancora più convinta che era una cosa che si poteva evitare con un po’ più di attenzione, anche perché quei camion, in quel punto, non potevano passare. Questo è un omicidio».
Eppure la verità processuale dice altro. Cosa pensa?
«Lo hanno massacrato ancora una volta, ma vi sembra giusto che non ci sia alcun colpevole? Si può calpestare così la storia, la vita e la dignità di una persona?».

Ultimo aggiornamento: 07:09 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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