Le eccellenze dell'ingegneria italiana al servizio dell'Inghilterra: il veneziano Andrea progetta un braccio robotico per rimuovere detriti nello spazio

Il nuovo strumento, "The Crab", realizzato in tempi record, verrà lanciato in orbita entro il 2026: si tratta della prima missione al mondo di questo genere. L'obiettivo? Rendere il cosmo più accessibile alle nuove generazioni

Giovedì 14 Marzo 2024 di Enrico Scoccimarro
Le eccellenze dell'ingegneria italiana al servizio dell'Inghilterra: il veneziano Andrea progetta un braccio robotico per rimuovere detriti nello spazio

VENEZIA - Ambizione, preparazione e coraggio. Tre ingredienti fondamentali per riuscire a emergere nella società contemporanea, in cui la competizione aumenta sempre di più. Ci sono giovani che riescono a immagazzinare queste tre caratteristiche necessarie per realizzare i propri progetti. C'è però un'altra componente fondamentale, che a volte diventa imprescindibile: l'ambiente. Il contesto adatto, vuoi per stimoli diversi, vuoi per risorse umane o materiali, rende fertile il terreno per piantare quei tre semi. È in questo filone che si inserisce la storia di Andrea Antonello, 35 anni, veneziano (di Zelarino), ingegnere aerospaziale espatriato a Londra. Lavora alla ClearSpace, una startup che si occupa di satellite e debris-removal, e ha appena presentato un braccio robotico innovativo che verrà lanciato nello spazio entro il 2026. Si tratta della prima missione al mondo di questo genere.

 

La storia del giovane ingegnere aerospaziale

«Ero un bambino piuttosto curioso, e ho iniziato a interessarmi fin da subito a giochi che richiedevano praticità e manualità - racconta Andrea -. Ho vividissimi ricordi di serate intere passate con mio papà a costruire Lego o a smontare lo sfortunato oggetto di turno».

«Questa curiosità si è poi trasformata in una generale passione per la tecnologia (e per lo spazio) con l’inizio delle scuole elementari.

Il mio percorso scolastico è poi continuato con il Liceo Scientifico (U. Morin di Mestre) e con l’università in ingegneria a Padova».

La prima svolta avviene proprio con il coraggio di lasciare la propria zona di comfort: «Durante la laurea magistrale, sono venuto a sapere di un programma di scambio con l’università della California e ho colto la palla al balzo. Ho passato 6 mesi nel 2012 all’University of California (Irvine) dove ho maturato il mio interesse per la robotica e migliorato drasticamente il mio inglese. Nel 2013 torno in Italia e completo la mia laurea con una tesi su un braccio robotico per riparazioni nello spazio».

Il neo ingegnere dimostra di avere subito le idee molto chiare, oltre alla spiccata ambizione: «Nello stesso anno, inizio un dottorato in Robotica Spaziale al CISAS "Giuseppe Colombo" di Padova, dove ho voluto continuare il filone di ricerca iniziato durante la magistrale, ed il titolo della tesi lo conferma: “Progettazione di un braccio robotico per simulazioni di laboratorio della navigazione e dell'attracco delle navicelle spaziali”. Inoltre, durante il dottorato, ho conseguito anche un Master in Business Administration dall’University of Iowa. Alla fine ho fatto un anno di postdoc, per poi trasferirmi a Londra nel 2018, dove vivo ancora oggi».

La preparazione accumulata, permette così ad Andrea di iniziare la propria carriera lavorativa proprio nell'ambito d'interesse: «A Londra, ho iniziato a lavorare per una startup chiamata Automata, che sviluppava un piccolo braccio robotico. All'epoca l'azienda era piccolissima (15 persone), e mi sono ritrovato a dover far di tutto: dal software, al design meccanico, alle vendite. Un paio di volte, con un cacciavite in mano, ho persino allestito il nostro stand alle fiere di settore».

 

Il braccio spaziale "The CRAB"

E veniamo così al progetto: si chiama "The CRAB" il braccio robotico che verrà installato su uno dei pannelli laterali del satellite. È stato sviluppato in meno di 12 mesi, inclusi tre per lo studio analiticoL’obiettivo di CRAB sarà quello di compiere operazioni di ispezione e di manipolazione grazie ad una telecamera e ad una pinza installati alla fine del braccio. È la prima missione che rimuoverà un detrito spaziale e sono in programma altri interventi.

«In futuro - spiega il giovane ingegnere - verrà utilizzato per operazioni più critiche come ad esempio il rifornimento, la riparazione di satelliti e l’assemblaggio di strutture in orbita. Clearspace sta al momento sviluppando due missioni in parallelo. Entrambe hanno come obiettivo la rimozione di un detrito spaziale delle dimensioni di una grossa scatola. Saranno le prime missioni spaziali a compiere questa operazione, che pone delle criticità tecniche notevoli. L’obiettivo di Clearspace è quello di rendere lo spazio sostenibile, ripulendolo dai detriti spaziali attualmente in orbita e rendere lo spazio accessibile alle future generazioni». 

Il nome CRAB è un acronimo derivante da CLEAR Robotic Arm Breadboard. CRAB in inglese significa anche granchio, e l’acronimo è stato scelto non a caso, vista la similarità tra l’animale e il sistema meccanico.

Clearspace nasce in Svizzera nel 2018, mentre il distaccamento londinese è stato creato nel 2020. Il team di Londra è composto da 30 persone, con un’età media sotto i 30 anni.

Cos’è un detrito spaziale

Un detrito spaziale è «un oggetto creato dall’uomo che si trova in orbita, e che ha smesso di essere utile. Le dimensioni di un detrito sono estremamente variabili, da una microscopica scaglia di vernice, fino ad interi sezioni di razzi o satelliti non più funzionanti. In orbita ci sono addirittura delle pinze perse da un astronauta durante una passeggiata spaziale.

Questa “spazzatura” pone un serio pericolo all’accesso allo spazio, in quanto eventuali collisioni possono generare una reazione a catena che renderebbe lo spazio inaccessibile per decenni. Alle velocità orbitali tipiche (5-7km/s), un frammento di metallo di qualche millimetro ha così tanta energia cinetica da poter distruggere completamente un satellite». 

Ma perché è così difficile rimuovere un detrito spaziale?

«Una missione per la rimozione di un detrito spaziale è costituita da una serie di operazioni sequenziali che devono avvenire in perfetta sincronia. Dopo il lancio, il satellite spazzino approccia l’orbita del satellite da rimuovere. Quando spazzino e detrito iniziano ad essere vicini (qualche km di distanza), inizia la fase di approccio vero e proprio, nella quale videocamere e altri sistemi di misurazione cercano di stimare il moto e la velocità del satellite defunto. Una volta che il servicer è sufficientemente vicino, inizia una danza molto complicata durante la quale lo spazzino cerca di avvicinarsi al detrito senza toccare: infine, il sistema di cattura si dispiega e “abbraccia” il detrito. Una volta catturato, il detrito viene poi rilasciato in atmosfera dove brucerà e si dissolverà durante il rientro in atmosfera».

L'Agile Methodology

«La metodologia Agile è un metodo di sviluppo basato su una serie di iterazioni incrementali.Continue iterazioni sono costose e richiedono molto tempo. Tuttavia, l’avvento di tecnologie di rapid manufacturing (come le stampanti 3d o le stampanti per le schede elettroniche) hanno reso questo approccio molto più fattibile ed economico. 

un altro importante dogma dell’Agile methodology è l’ossessione per i test: se qualcosa non funziona, lo vogliamo sapere subito così da poterlo modificare e cambiare».

L'approccio inglese allo smart working

«A Londra, l’approccio verso lo smart working è radicalmente cambiato durante e in seguito alla pandemia. Il nostro team è molto flessibile a riguardo: la natura del lavoro è molto varia e le persone che scrivono software non hanno necessità di essere in laboratorio ogni giorno. Chiaramente, la quantità di smart working varia durante le varie fasi del progetto: mentre all’inizio il lavoro è principalmente di simulazione, verso la fine del progetto il laboratorio è sicuramente più “affollato”: il team di meccanismi deve assemblare le varie parti, il team software deve testare il codice, e gli elettronici devono garantire che tutto sia cablato in modo corretto».

Di questo passo e con i mezzi ad oggi a disposizione, dove pensi si possa arrivare a fare nello spazio?

«Sono convinto che questo decennio e quello successivo saranno fondamentali per quanto riguarda l’industria spaziale e in generale l’accesso allo spazio. Stiamo assistendo al primo vero “rinascimento” dell’esplorazione spaziale dai tempi della “space race” tra Russia e USA degli anni 60. Molte startups stanno nascendo, nuove tecnologie sono in fase di sviluppo ed il pubblico ha un rinnovato interesse per lo spazio. Di conseguenza, stanno esponenzialmente incrementando gli investimenti pubblici e privati nel settore.

È evidente che la prossima frontiera di esplorazione umana sarà Marte, e molte delle tecnologie in fase di sviluppo hanno il pianeta rosso come obiettivo.

In tutto ciò, la robotica è un ingrediente fondamentale per garantire e supportare l’accesso allo spazio: dal rifornimento alla riparazione, dalla rimozione di detriti fino alla costruzione di intere strutture in orbita quali pannelli solari, la robotica sarà un tassello fondamentale e necessario».

Hai qualche consiglio per chi vuole inizare un percorso in Ingegneria Aerospaziale?

«Parte tutto da una solida formazione universitaria. Al giorno d’oggi, però, questa è condizione necessaria ma non sufficiente. Penso sia fondamentale immagazzinare più esperienze possibili all’inizio di una carriera, sia in termini di competenze che geograficamente. Per fare un esempio, il mio background universitario è sostanzialmente solo meccanico: l’università non mi ha preparato ad argomenti quali software, elettronica o project management. È solo attraverso la mia esperienza lavorativa che mi sono messo in gioco e, piano piano, ho preso confidenza in ambiti che erano decisamente fuori dalla mia comfort zone. Uscire dalla propria zona di comfort - seppur non facile per nessuno all’inizio - lo ritengo un aspetto fondamentale.

Infine, consiglio a tutti almeno un’esperienza all’estero. La mia carriera è stata profondamente influenzata dai miei quasi due anni in USA. Il sistema educativo anglosassone è decisamente più pratico, il che è stato un beneficio per la mia formazione».

In che senso?

«Una caratteristica della formazione universitaria italiana è un’estrema attenzione per gli aspetti teorici della didattica. Questo è un aspetto fondamentale (che gli anglossassoni ci invidiano), ma allo stesso tempo rende gli studenti italiani carenti nell’aspetto pratico: come costruire un sistema meccanico, come programmare un robot, come muoversi in un laboratorio etc. In questo, gli americani sono eccelsi, e la loro formazione è sicuramente più “applicata” della nostra.

Possedere entrambi gli aspetti, quello teorico e quello pratico, ha la capacità di aumentare enormemente il potenziale di un giovane laureato, rendendolo estremamente appetibile all’attuale mercato del lavoro». 

Ultimo aggiornamento: 16 Marzo, 20:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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