Venezia. Il riscatto della "impiaresse": «Non è una pratica in estinzione ma in evoluzione»

Un'arte riconosciuta dall'Unesco come Patrimonio immateriale dell'umanità. Da Murano le perline hanno invaso il mondo

Giovedì 29 Giugno 2023 di Vittorio Pierobon
Marisa Convento, impiaressa

VENEZIA - Impiraressa, vocabolo di comprensione impossibile per chi non conosce il dialetto veneziano e non sa che il piron è la forchetta ed impirar significa infilzare. Da qui impiraressa, la donna che infilza le perle con una specie di forchettone multi-aghi d'acciaio che immerge nella sessola con un movimento orizzontale. Un'arte antica - riconosciuta dall'Unesco, come Patrimonio immateriale dell'umanità - che una volta veniva praticata da migliaia di donne ed ora è ridotta a poche decine. «Ma non parliamo di mestiere in estinzione, diciamo piuttosto in evoluzione», tuona Marisa Convento, 63 anni ben portati, a sua volta impiraressa, anche se sarebbe più giusto dire designer, creatrice di gioielli, ma soprattutto profonda conoscitrice della tradizione vetraia e delle tecniche di lavorazione, pur essendo "campagnola", come i veneziani definiscono tutti coloro che sono nati oltre il ponte che unisce la città alla terraferma.

TRASFORMAZIONE

«I tempi sono cambiati e ora chi pratica quest'arte lo fa in maniera più professionale, non limitandosi ad infilare le perle, ma creando autentici gioielli. E soprattutto oggi le donne (ma ci sono anche uomini) non vengono più sfruttate, con miseri compensi a cottimo, come accadeva fino a poche decine di anni fa». È il rovescio della medaglia, la magia del vetro, nei secoli addietro, nascondeva anche tecniche di lavoro durissime in condizioni poco salubri. Del resto la Serenissima aveva posto l'obbligo di produrre vetro solo a Murano, proprio per tenere l'inquinamento e il pericolo di incendi, lontani dalla città.

Per le impiraresse era diverso, loro non inquinavano e non provocavano incendi, dovevano solo infilare perle e potevano farlo anche da casa, o meglio in calle, ciacolando con le colleghe. Erano tantissime concentrate nei sestieri di Cannaregio e Castello, quelli più vicini a Murano. «Era uno dei pochi lavori retribuiti a cui poteva accedere una donna - racconta Marisa Convento - durante la Serenissima e anche nella successiva dominazione austro-ungarica e nel regno d'Italia. La tecnica era semplice: infilare perle utilizzando il maggior numero di aghi possibile per guadagnare tempo. La media era di 60-80 aghi, ma leggende parlano di impiraresse capaci di gestire 120 aghi contemporaneamente. Più aghi voleva dire più soldi. Non c'erano orari di lavoro, le donne erano in competizione per accaparrarsi le perle da infilzare. Sopra di loro c'era la mistra, un'intermediaria che riceveva le casse di perle dalle fabbriche muranesi e doveva farle infilare. Era lei che sceglieva a chi darle. Aveva potere assoluto». Una sorta di caporalato, che controllava questo esercito di lavoranti. Forse più di cinquemila.

LO SCIOPERO NEL 1904

Ma perché c'era l'esigenza di infilare le perline? Spiega ancora Marisa Convento, da poco nominata presidente del Comitato per la salvaguardia dell'arte delle perle di vetro veneziane: «Venezia esportava perle. Marco Polo, per esempio, è partito per la Cina con un grosso carico. Infilare un filo con misure prestabilite, serviva per usarlo come merce di scambio, o addirittura moneta. A mazzi da mezzo chilo. Inoltre il trasporto dei fili era molto più sicuro: se si rompeva una cassa si potevano recuperare i grappoli, mentre le perline sciolte sarebbero andate perse». Donne del popolo, spesso analfabete, cariche di figli, molto povere, con mariti precari o senza lavoro, costituivano l'esercito delle impiraresse. Una forza-lavoro che ha cercato, pur non essendo contrattualizzata, di far valere i propri diritti. «Hanno addirittura proclamato uno sciopero - racconta Marisa, un pozzo di ricordi e di aneddoti - Era il settembre del 1904 quando hanno deciso di incrociare le braccia. Leader della protesta era Angela Ciribiri. Per tre settimane oltre duemila donne tennero testa alle pressioni padronali. E alla fine ottennero un aumento del compenso». Ed ebbero il grande merito di portare alla luce il fenomeno dello sfruttamento, spesso anche minorile. Ora tutto è cambiato. Buona parte delle perline non viene più dalle Conterie di Murano. «Sono perle di vetro veneziano, ma non di Murano. Sembrerà strano ma la differenza si vede: lucentezza, colori, tonalità, non sono gli stessi. Comunque in passato, nelle Conterie, sono state prodotte tante di quelle perle, che abbiamo scorte per chissà quanti anni. Ci sono depositi di perline in tutto il mondo. Queste che vede le ho fatte rientrare dall'America. A Washington c'è un grosso commerciante che ha recuperato un carico che era a bordo di una nave naufragata. Le perline di Murano hanno invaso il mondo. Tuttora se ne trovano nei villaggi lungo le coste dell'Africa».

MISSION

Quella di Marisa Convento è quasi una mission. Vuole i massimi riconoscimenti per quest'arte tipicamente veneziana. Lei dopo aver chiuso il suo laboratorio in calle della Mandola, si è trasferita a Bottega Cini, uno scrigno di venezianità, una boutique della produzione artigiana di alta qualità. Espone e insegna. Racconta ai turisti, affascinati dalla lavorazione del vetro, l'epopea delle impiraresse e spiega le differenze tra i vari tipi di perline, quelle da canna (sottilissimi fili di vetro, tagliuzzati a mano) e quelle da lume, ricavate dalla fusione del vetro su un filo di metallo che poi veniva sfilato. «Senza dimenticare la "rosetta" inventata nel 1400 da Marietta Barovier, figlia di Angelo, uno dei più grandi artisti del vetro della storia. Era una perla straordinaria, massiccia, frutto di stratificazioni di vetro di vari colori, sapientemente molati, con all'interno un disegno che ricordava la rosa, simbolo mariano. È ancora richiestissima». E, in tempi di parità di genere, Marisa demolisce anche la convinzione che quello dell'impiraressa sia un lavoro esclusivamente femminile. «Ormai ci sono anche tanti perleri uomini. E non solo veneziani. Ci sono diversi francesi.C'è un ragazzo del Senegal che è bravissimo. È un mestiere affascinante, creativo. Lo può fare chiunque abbia amore per Venezia e le sue tradizioni. Certo non è facile farsi insegnare le tecniche di lavorazione, i veneziani sono molto gelosi. Ma se ce l'ho fatta io, che ho cominciato a trent'anni e venivo da Marghera».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci