Così Longarone sparì in quattro minuti
e così Mirta si salvò nel sottotetto

Mercoledì 9 Ottobre 2013 di Edoardo Pittalis
Longarone fu letteralmente rasa al suolo
VENEZIA - Mirta aveva sette anni e si salvata perch era minuta e stava in piedi nel sottotetto e l’onda, quando arrivata a Codissago, aveva in parte perduto la furia distruttrice anche se portava il fango che seppelliva. Mirta si era arrampicata con i genitori dove la casa finiva, resistendo fino a quando il silenzio aveva fatto capire che l’apocalisse era passata. Codissago è una frazione di Castellavazzo, sul Piave, c’era il porto delle zattere e gli zattieri smistavano il legname per la Serenissima. Di legno delle montagne è fatto il mezzo crocefisso che è tutto ciò che è rimasto della casa quella notte del 9 ottobre 1963. Mezzo crocefisso, il busto del Cristo con le braccia spalancate, il resto lo ha proprio strappato il fango che è arrivato alla metà della croce e si è fermato risparmiando il volto. La famiglia di Mirta ha conservato la reliquia e ogni anno, il 9 ottobre, la porta fino alla diga in una specie di processione privata. Per il mezzo secolo dalla tragedia del Vajont, la bambina di ieri non ci sarà, è in ospedale.



Renato aveva dieci anni quando l’onda ha cancellato Longarone, erano tutti a letto a quell’ora: lui, il fratellino di tre anni, il padre e la madre. L’acqua ha strappato dai letti i quattro, li ha spogliati nel rapirli, portati lontano, fatti sparire. Renato si è salvato perché con lui l’onda è stata clemente, lo ha quasi accompagnato nella caduta, lo ha depositato a qualche centinaio di metri e attorno a lui il fango si è chiuso come in una bolla protettiva. È stato come se lo avesse racchiuso in un ventre materno dove non arrivavano i suoni della morte. Altri quella notte si sono salvati come lui.



È passato mezzo secolo da allora, molti di quelli che avevano visto l’alba del 10 ottobre a Longarone se ne sono andati, l’onda cieca ha risparmiato qualcuno, ma il tempo non risparmia nessuno. E chi è rimasto continua a dividersi tra sopravvissuti e superstiti perché, spiegano, non è la stessa cosa essersi salvati quella notte o essere vivi semplicemente perché si era da un’altra parte. Nel museo di Longarone pendono dal soffitto 1910 lamelle grigie, tante quanti sono stati i morti accertati.

All’uscita ti aspettano 31 lamelle bianche, una per ogni bambino mai nato, sono morte anche 31 donne che aspettavano un figlio. E fuori ci sono le lamelle attorcigliate perché i superstiti spesso si sono sentiti morti dentro, attorcigliati nella memoria quasi si sentissero colpevoli di avercela fatta.



Cinquant’anni sono quasi lo spazio di tre generazioni, i bambini di allora hanno nipoti. Forse l’Italia ha imparato poco dalla tragedia se ogni anno cadono pezzi di montagna, straripano fiumi e travolgono tutto, la terra non regge, si muore oggi come ieri per l’incuria dell’uomo. C’è voluta la lezione civile di Marco Paolini per farci prendere coscienza di un passato che si tende a dimenticare. Forse la tragedia del Vajont è stata talmente enorme che si fatica anche a distanza di tanto tempo a farsi carico delle colpe dell’uomo, a riflettere che si poteva evitare.



Quelli che erano soldati di leva nel 1963 la notte hanno ancora incubi perché non riescono a dimenticare ciò che hanno visto nel Vajont. Furono scaricati dai camion provenienti dalle caserme di Belluno, Pordenone, Udine, Mestre e messi a scavare nella valle dell’orrore, dove l’odore più penetrante era quello della morte ancora più acido per la nafta che entrava nelle narici e freddo per l’aria gelida come se stesse per nevicare. E il rumore più forte era quello di un pianto trattenuto.



Ragazzi provenenti da ogni parte d’Italia messi a scavare anche a mani nude per cercare corpi sotto cataste di tronchi, fasciame di legno, rotaie arrotolate come molle di un giocattolo di latta. Attorno fantasmi vestiti di nero cercavano i resti di quella che fino a qualche giorno prima era una casa. E quando quei fantasmi trovavano una fotografia, un orologio, una stoviglia, la custodivano sotto il mantello come la più preziosa delle reliquie. Dalla Jugoslavia arrivarono reparti specializzati nel recupero e nel riconoscimento dei corpi: nella città macedone di Skopje distrutta dal terremoto, a fine luglio, erano stati identificati con metodi nuovissimi migliaia di morti.



Scavavano come in processione, uno dietro l’altro. Nella luce irreale, lattiginosa come se tutto dovesse essere fermato per sempre in una fotografia in bianco e nero. Elicotteri americani trasportavano le famiglie a Cimolais, nella colonia, nella scuola elementare. Una troupe della Rai filmava le scene di dolore, salendo fino alle frazioni devastate a metà. Le domande del cronista suonavano a volte assurde: «Signora che effetto le fa lasciare il paese?». «El paese? Al me ga fat effett lasciare qui le mie due sorelle che non so neanche dove son sepolte». Lo sapevano tutti da anni, non c’è stata tragedia più annunciata di quella del Vajont. Il monte dal quale si è staccata la frana si chiama Toc, contrazione di "Patoc" che vuol dire marcio.



Quella notte l’acqua e lo spostamento d’aria crearono la distruzione in quattro minuti! La valle si coprì di fango che seppellì interi paesi sotto una crosta dura. Un muro solido e orizzontale coperto di detriti. Soltanto alla luce del giorno fu possibile capire l’enormità del dramma. «Il paese di Longarone praticamente non esiste più. È stato cancellato. Al suo posto non vi è che un’enorme massa di fango», riferiva l’agenzia Ansa delle ore 10,39 del 10 ottobre, esattamente dodici ore dopo la tragedia. Dal Piave continuavano ad emergere centinaia di corpi straziati e denudati dalla furia delle acque. A Belluno videro il fiume gonfio di corpi. «Non è rimasto nulla. Non nulla per dire poca roba: proprio nulla», scrisse un giornale.



Un mese dopo i 48 scolari sopravvissuti su 253 di Longarone erano sui banchi improvvisati, con libri, quaderni e matite arrivati in dono da ogni parte d’Italia. Germano, 11 anni, guardò dalla finestra di quella specie di scuola e vide il paese distrutto, i soldati che spalavano, e disegnò le case che c’erano prima, gli uomini e le donne che camminavano per le vie, i bambini che rincorrevano un pallone. La fotografia è sul Gazzettino.
Ultimo aggiornamento: 14:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA