Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Del Toro e la sua fiera idea di cinema:
lo spettacolo non manca, il pathos sì

Giovedì 27 Gennaio 2022

Nel 1947 un regista come Edmund Goulding, purtroppo oggi praticamente dimenticato, gira un noir piuttosto singolare da un romanzo di William Lindsay Gresham, “Nightmare alley”, storia di un imbonitore, dal passato non felice, che incanta gli spettatori di un luna park, grazie alle astuzie imparate dalla compagna di un mago, mettendo in scena tali inganni con l’aiuto di Molly, innamorata di lui. L’incontro con una psicologa porterà il gioco a estreme conseguenze, salvate soltanto da un happy end, imposto a quel tempo dalla produzione. Il bianco e nero di Goulding avvampa nelle tonalità calde e morbose del remake di Guillermo Del Toro, portando il gioco seduttivo della magia artefatta all’esaltazione di torbide influenze, incontrollate in rapporti pericolosi. Il mondo barocco e cangiante dell’illusione e del divertimento rimbalza negli aspetti spettrali di un’America uscita dalla Depressione e a un passo dalla guerra, dove la dinamica di controllare il pensiero degli altri finisce nel paradosso di non comprenderlo per niente (la strategia della psicologa), alimentando la tragicità di una storia puntualmente beffarda e cinica. Il cinema di Del Toro è tutto qui, e va da sé che non viene detto in modo riduttivo, espanso in una vorticosa ascendenza all’ineluttabile, compresso in un formalismo a volte eccessivamente calligrafico, eppure capace di esplorare sentimenti e trappole, in un’atmosfera perversamente ridondante (e risaputa) di luci e ombre. Ciò che Tyrone Power tratteneva nella sua lontananza di divo belloccio, Bradley Cooper qui sfodera con la sua espressione che sfiora il gigionismo (compreso un flash di intima nudità), mentre il resto del cast si snoda soprattutto tra lo sguardo luciferino di Cate Blanchett, quello genuino di Rooney Mara e quello quasi sfacciato di Toni Collette, prima di addentrarsi in un finale che inchioda stavolta il crudele sarcasmo. Immerso in morbidi movimenti con i quali Del Toro sembra accarezzare la storia, la realtà “circense” della fiera (tutta la prima parte, un po' lunga) raccoglie fisicità e comportamenti usuali, tra incanto e malinconia, tarocchi e mentalismo, personaggi icastici (nani, freaks, uomini possenti) ed esistenze fragili, scompaginando una narrazione che ruota attorno a una forma se si vuole semplice e al tempo stesso complessa, forse prigioniera della sua stessa rappresentazione, che dimostra ancora una volta come a Del Toro non manchi il senso dello spettacolo, ma che si accontenti di una superficialità avvincente, qui ricalcata su codici pedissequamente codificati (il noir della seconda parte, più intrigante), dove il Male aleggia senza mai divorare le sue vittime. In "La fiera delle illusioni" l’ascesa e la caduta di Stanton, nella sua circolarità evidente, così affronta e affonda nei codici morali di una storia dove l’inganno ragiona sulla messa in scena e i trucchi per esibirla, l’essenza stessa della forma del (suo) cinema. Voto: 6,5.

LA BALLATA DELLA SERA - Il bel ragazzotto Cole, un Philip Ettinger un po’ languoroso e un po’ insipido, è un infermiere a domicilio che si occupa degli anziani, trafugando medicinali per aggiustare le entrate, altrimenti povere. Siamo in una cittadina mineraria in West Virginia, nella regione dei monti Appalachi. L’ambiente rurale è ravvivato da una natura che in autunno dipinge di colori caldi il paesaggio, ma l’atmosfera sociale è tutt’altro che serena. E Cole è un ragazzo problematico, con un’infanzia poco agevolata dai buoni sentimenti. Tratto dal romanzo omonimo di Carter Sickels, presentato in Concorso al festival di Torino nel 2020, dopo 14 mesi esce nelle sale italiane firmato da Braden King, regista che si è fatto un buon nome nel documentario e ora al secondo lavoro finzionale, dopo “Here”, tuttavia ormai datato 10 anni prima. Il ritorno in zona di un amico adolescenziale, Terry, rincara la fragilità di un ragazzo che vorrebbe solo far delle bene, anche a costo a volte di azioni illecite. La morte del nonno paterno, ossessionato dalla Bibbia e dai demoni, l’uomo che ha di fatto maturare Cole è un’ulteriore perdita di ormeggi per Cole, che vede tornare in zona anche la madre, mentre la casa di famiglia viene messa in vendita e anche la fidanzata è fonte di ulteriore disagio. Braden King traccia ancora uno scandaglio sulla provincia americana, destinata a una quotidianità malinconica e brutale, sofferta e malavitosa. “L’ora del crepuscolo” non aggiunge granché a un rituale narrativo consolidato e forse anche un po’ consumato, sospeso e a tratti di fatto noioso, nonostante una radice onesta e sensibile. Magnificamente fotografato nell’autunno di un paesaggio dolente da Declan Quinn, è una ballata che scuote il corso della storia, senza mai essere troppo crudele, dove l’inevitabile epilogo ravviva almeno l’azione. Una storia che vive di traumi e fantasmi, di genitori assenti e di compagnie pericolose, dove tutto sembra poter crollare da un momento all’altro, come quella quotidianità che fatica a restare illesa, mentre la crisi sociale è solamente lo specchio di quella più dolente che tocca i rapporti umani. Voto: 6.

SI CHIUDE LA TRILOGIA DEL "BELLO" - Siamo arrivati al capitolo finale di questa trilogia giovanilistica, che racconta la storia di Marta, affetta da una grave malattia che necessita di un trapianto di polmoni, del suo ragazzo Gabriele e dei suoi due grandi amici, Jacopo e Federica, che coabitano con lei. Marta è uscita dall’ospedale e tutto sembra andare per il meglio, il rapporto con Gabriele si è ricucito, e i due amici continuano la loro precaria esistenza, in cerca di lavoro e amore. Scritto ancora da Roberto Proia e Michela Straniero e diretto per la seconda volta da Claudio Norza, “Sempre più bello” conferma la sua piacevole leggerezza, il tatto di sottolineare personaggi credibili, a cominciare dalla protagonista (la brava Ludovica Francesconi), ma al tempo stesso mostra ormai una ripetitività delle situazioni, appena ravvivate dall’ingresso di una nonna (Drusilla Foer, in un ruolo non del tutto convincente), dalla storia complicata di Jacopo con il dottore di Marta e dalla malattia della ragazza che torna a farsi minacciosa. Nell’insieme della trilogia resta un’operazione riuscita: uno sguardo misurato e partecipato sulla gioventù di oggi, un po’ frivolo, un po’ commovente, sicuramente sincero, lontano da quello greve e sguaiato di altro cinema italiano. Voto: 6.

 

Ultimo aggiornamento: 23:03 © RIPRODUZIONE RISERVATA