Il menu, a cena, è più o meno questo: carciofi arrosto su crema di pistacchi, timballo di anatra con patate e il rischio che l’Europa finisca davvero coinvolta in un conflitto.
Del resto è proprio il presidente ucraino a scodellare in un video-collegamento con i leader che quasi trasforma il summit in un gabinetto di guerra vero e proprio la richiesta di tenere fede alle promesse sulle forniture di munizioni. «È umiliante» dice Zelensky, provando a stimolare un’intesa sulle cosiddette “innovazioni” con cui l’Ue dovrebbe finanziare l’aumento di produzione. Né l’emissione di debito comune richiesto da Francia ed Estonia (assieme a Italia, Belgio e Grecia), né l’uso del 90% dei profitti sugli asset russi congelati per il sostegno della difesa Ucraina (e il 10% restante alla ricostruzione) sono però formalmente passati. Nel testo resiste un riferimento allo studio di ipotetiche «opzioni per il finanziamento». «Almeno per ora» garantiscono fonti diplomatiche, avvalorate dalle parole finali del presidente del Consiglio Ue Charles Michel: «Non siamo intimiditi, siamo robusti e continueremo a fare quello che è necessario per difendere la pace, la prosperità e la sicurezza». È il classico gioco lessicale che va in scena a Bruxelles. Poco appassionante, ma decisivo.
Tant’è che nel pomeriggio a prendersi la scena è ancora una volta l’ungherese Viktor Orbán quando, con tempismo studiato - a quattro giorni dal voto russo e nel pieno del Consiglio - fa sapere di essere l’unico leader europeo ad essersi ufficialmente «complimentato» con Vladimir Putin per la sua rielezione, con una lettera che sottolinea il «rispetto reciproco» tra i Paesi. Un colpo duro, anche a chi contava sul magiaro per sostenere una Commissione spostata più a destra dopo le urne di giugno. In primis l’Ecr (la famiglia europea dei conservatori di cui FdI fa parte) che non a caso ora nicchia. Il rischio è che, nel giorno in cui Italia-Francia-Polonia-Ungheria si allineano per rincorrere le proteste degli agricoltori europei e imporre nuovi dazi sulle esportazioni agricole ucraine (ottenendo però limiti all’import di grano russo), vada però sfarinandosi il progetto meloniano a sostegno della riconferma di Ursula von der Leyen. L’alert arriva anche da Vox, il partito estremista della destra spagnola, che da Subiaco (dove ieri si è tenuta una convention dell’Ecr) ha stoppato l’attuale presidente della Commissione: «Meloni faccia come vuole, noi non la votiamo».
LA CRISI DI GAZA
D’altro canto, stretta tra una poco lusinghiera foto in copertina del Financial Times e le intemperanze di Matteo Salvini, il lavorìo diplomatico di Meloni si concentra sui Balcani occidentali e sulla crisi di Gaza. Sul primo punto l’apertura dei negoziati è una vittoria che l’Italia si intesta volentieri («Grande soddisfazione» dice Meloni). Così come, tra i fedelissimi della premier, si fa notare che la «pausa umanitaria immediata che porti a un cessate il fuoco sostenibile» a Gaza combaci sia con gli auspici destinati mercoledì dal Capo dello Stato Sergio Mattarella durante il consueto pranzo pre-Consiglio, sia con le parole scandite da Meloni durante il tavolo di lavoro tenuto in mattinata con il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres. «La Ue può e deve giocare un ruolo di primo piano nella soluzione della crisi» ha scandito la premier dicendosi «particolarmente preoccupata per le prospettive di un’operazione di terra di Israele a Rafah».