Microplastiche, ora sono anche nelle arterie. Marfella: «Fanno aumentare ischio infarto e ictus più di altri fattori»

Il docente dell’Università Vanvitelli è il primo autore dello studio pubblicato sul New England Journal of Medicine che lancia l’allarme. «Non riusciamo a metabolizzarle, infiammano l’organismo»

Giovedì 14 Marzo 2024 di Maria Pirro
Raffaele Marfella

È il prezzo che paghiamo, forse il più caro, per una vita sempre più incentrata sui consumi: tracce di plastica sono state trovate nella placenta, nel latte materno, nei polmoni, nel fegato, nello sperma, nelle feci, nelle urine, nel sangue.

E nelle arterie.

«Le abbiamo appena individuate nelle placche aterosclerotiche», dice Raffaele Marfella, 63 anni, professore dell’università Vanvitelli, primo autore dello studio made in Naples, pubblicato sul New England Journal of Medicine che lancia l’allarme sull’utilizzo, destinato a triplicare, di questo materiale. Già oggi la produzione supera i 400 milioni di tonnellate all’anno (che saranno 1,3 miliardi nel 2060).

Perché la plastica è tanto pericolosa?

«Non riusciamo a metabolizzarla in alcun modo, infiamma l’organismo: per la prima volta, abbiamo dimostrato che aumenta, in particolare, il rischio di infarto, ictus e morte prematura».

Incide più di obesità, ipertensione, fumo o diabete?

«Per certi aspetti, sì. In collaborazione con Pasquale Iovino, professore di Biologia sempre alla Vanvitelli specializzato nel valutare l’inquinamento, anche di acque e terreni, abbiamo provato che micro e nano plastiche accelerano la progressione della malattia cardiovascolare».

Una scoperta definita rivoluzionaria dalla rivista scientifica. Perché nessuno ci ha pensato prima?

«Serve un macchinario hi-tech per analizzare i campioni: ogni esame dura 4-5 ore, ha un alto costo (sostenuto con fondi Prin e dell’ateneo, grazie al rettore Giovanni Francesco Nicoletti, con il sostegno del manager del Policlinico Ferdinando Russo) e prevede particolari accorgimenti a partire dalla sala operatoria».

Quali?

«Durante lo studio, non abbiamo mai utilizzato materiale di plastica, nemmeno i classici guanti chirurgici. E abbiamo raccolto le placche in provette di vetro, poi portate nel laboratorio dell’Università e divise in due parti: una metà è stata esaminata per ricercare le micro e nano particelle all’interno, attraverso specifici enzimi in grado di eliminare tutto il materiale organico; l’altra metà è stata usata per valutare l’infiammazione al microscopio elettronico, fino a certificare che il mix di inquinanti raddoppia le possibilità che le placche si rompano».

Il motivo?

«Sono più friabili, pur danneggiate».

Quali tipi di plastica sono stati trovati nelle arterie?

«Il polietilene, nel 58,4 per cento dei casi, e il polivinilcloruro nel 12,5, ovvero il pvc usato nei rivestimenti, nelle pellicole, nei tubi, nei dischi in vinile...».

Resta da chiarire come queste sostanze tossiche penetrino fino al cuore.

«Probabilmente, le ingeriamo con alimenti come il pesce che, a sua volta, mangia buste e altri pezzi di plastica che inquinano il mare, ma anche bevendo dalle bottiglie: ogni millilitro d’acqua rilascia una quantità importante di micro plastiche; mentre le nano plastiche, inferiori a un micron, viaggiano nell’aria con il particolato: in pratica, le inaliamo».

Quanti pazienti sono stati coinvolti nell’indagine?

«In totale 257 con più di 65 anni: tutti sono sottoposti a un’endoarterectomia per stenosi carotidea asintomatica, sotto la supervisione del collega Giuseppe Paolisso, direttore del dipartimento di scienze mediche e chirurgiche».

Differenze rilevate tra uomo e donna, anche se il campione non può dirsi indicativo?

«No, ma abbiamo un altro dato preliminare interessante: i pazienti con micro e nano plastiche nelle placche sono risultati più giovani e non affetti da diabete, obesità o altre patologie collegate».

Cosa vuol dire?

«Che le micro e nano particelle possono rendere più veloce il processo di aterosclerosi anche rispetto a quello indotto dagli altri fattori di rischio finora noti».

Va anche peggio per chi vive in Terra dei fuochi?

«Il rischio non appare limitato a livello territoriale, ma diffuso ovunque. Di qui l’importanza di un intervento globale».

Quanto tempo è durato il monitoraggio?

«Circa 34 mesi, e ha coinvolto i colleghi con competenze specifiche dell’Harvard Medical School di Boston, dell’istituto Multimedica di Milano, dell’Inrca di Ancona e delle università di Ancona e Salerno, della Sapienza di Roma e di Salerno».

E ora?

«Puntiamo a fare prevenzione e a individuare una terapia».

Immagina che, in futuro, potrà valutare la presenza di micro e nano plastiche nel sangue anche con una semplice punturina sul dito?

«In realtà possiamo già farlo, ma con un metodo più complesso, dispendioso e, soprattutto, non utile per definire una cura mirata. Ecco perché la nostra priorità oggi è mettere a punto una tecnica non invasiva di indagine, probabilmente con la tac o la pet tac, che ci consenta di localizzare le plastiche nell’organismo e, subito dopo, poter intervenire, limitando i danni».

Ma come, se l’organismo non riesce a smaltire queste particelle?

«Simulando l’azione di due enzimi contenuti in un batterio, l’ideonella sakaiensis, già utilizzato per “digerire” la plastica e pulire gli oceani: inserendoli negli stent medicati».

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Ultimo aggiornamento: 07:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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