L'ultimo film di Paolo Sorrentino: una
"grande bellezza" non troppo grande

Mercoledì 22 Maggio 2013 di Adriano De Grandis
Toni Servillo in una scena del film (frame dal video)
VENEZIA - Probabilmente bisogna partire dalla fine per capire il senso ultimo del lungo e complesso film di Paolo Sorrentino, uscito in contemporanea nelle sale italiane e al festival di Cannes: in quel lento cammino acqueo sul Tevere, tutto in un piano-sequenza che accompagna i titoli di coda (e anche quelli di testa, com’ ormai, da tempo, moda), che riusciamo a cogliere finalmente quella "grande bellezza" della Citt eterna, mai in tutto il film così solitaria e silenziosa, lontana da quella umanità coatta e menzognera, caciarosa e disperatamente volgare; quello splendore che il protagonista ha cercato invano da quando ha scelto di vivere nella Capitale, senza mai trovarlo. È un finale circolare che ci riporta all’inizio, quando il panorama incomparabile di Roma provoca una sincope, da sindrome di Stendhal, a uno dei tanti turisti che invadono la città ogni giorno.



Sulle orme inevitabili di Fellini (non solo da oggi suo punto di riferimento), ma anche dello Scola de "La terrazza", Sorrentino si avventura a raccontare una nuova, aggiornata "dolce vita", ai tempi del bunga-bunga, altrettanto illusoria, vacua e deprimente, con le corde abituali del grottesco e l’altrettanto consueto, mirabile esercizio estetico, ma inceppandosi (e anche questa non è una novità) sugli snodi più narrativi e, più in generale, sul famoso "contenuto".



Raccontato da Jep Gambardella, oggi 65enne (si parte dalla festa del suo compleanno), giornalista senza più illusioni e ora spontaneamente nichilista, con una magnifica dimora che guarda il Colosseo (un Toni Servillo onnipresente, che potrebbe anche convincere i giurati di Spielberg), il film mostra il suo problema maggiore nell’ambizione di Sorrentino di governare i personaggi tra letteratura alta (troppe citazioni, da Proust a Celine; da Flaubert a Dostoevskij, che non servono a far definire i dialoghi più "intelligenti") e una snervante verbosità (troppe, troppe parole...), paradigmatica dello squallore quotidiano di una classe borghese snob e lontana dalla realtà. E lo sguardo morale sul degrado odierno, figlio di tv e spazzature ideologiche, rischia la banalità, quando si insiste sull’arte contemporanea, sull’esistenzialismo a comando, sulle figure sciroccate (ma volete mettere i vecchi dialoghi di Moretti?, "faccio cose, vedo gente"...), trasformando spesso i personaggi in macchiette, come accade al cardinale Herlitzka ridotto a MasterChef.



Certo tra preti miseri, sordidi politici, nobili decaduti, pseudo-artisti, donne disponibili, Sorrentino disegna (oltre al protagonista) altri due personaggi "veri", ai quali Carlo "Moraldo" Verdone e Sabrina Ferilli (una sorpresa) regalano umanità e quel lato malinconico che in parte riesce a saldare il quadro generale. Ed è perfino scontato, ma non per questo meno meritevole, che al talentuoso regista napoletano basti poco per far scattare la magia visiva, come l’incontro lampo con una Fanny Ardant notturna o la visita alla villa chiusa, dove affiorano dal buio grandi bellezze architettoniche e dell’arte. Così è il lato più surreale e fantasmatico a trovare l’emozione più pura, come con quella giraffa tra le rovine, che scompare con un trucco del prestigiatore, perché come dice Verdone, da Roma non resta che andarsene per troppa delusione, mentre "Jep" Servillo chiede al mago di far sparire lui e non l’animale. Perché questo è un film sulla profanazione e a una Roma così servirebbe un improbabile incantesimo per farle ritrovare la "grande bellezza".
Ultimo aggiornamento: 19:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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